martedì 16 ottobre 2012

Voglia di giustizia - tratto da "Il mio racconto per Denis"



Voglia di giustizia

 

Di Valter Giraudo

Rimasi accasciato a terra per più di venti minuti, a piangere e singhiozzare come un bambino. La rabbia era tanta, la delusione ancor di più. L'aggrottare violento della fronte e delle sopracciglia e lo scoprire e digrignare i denti, rappresentavano in modo evidente le modificazioni sintomatiche del mio viso che meglio esprimeva l'emozione della rabbia che era in me.
 
Sembrava che la storia si ripetesse. Prima un ubriacone che, alla guida della sua auto, mi aveva tamponato, creandomi non poche lesioni. Ero rimasto in ospedale per circa quattro mesi, ed i primi quindici giorni in terapia intensiva  per coma. Ma quel tale era per ora rimasto impunito per vari cavilli legali. Ora, per motivi assurdi e imprecisi, vogliono farmi passare la morte di mio figlio per un suicidio.
 
Perché? Perché tutto questo a me? Perché questo perpetrarsi della solita storia? Sembra quasi che l’idea del nichilismo, che nega l’esistenza di valori e realtà comunemente ammessi, abbia nuovamente preso piede. Non solo, la società è rivolta anche verso il culto di “Mammona”, figura biblica che rappresenta la ricchezza materiale idolatrata. Penso che sia il Mammonismo che il nichilismo siano il nuovo prodotto devastante di quest’epoca che potremmo definire come «regno senza valori» in cui l’unica unità di misura riconosciuta per determinare il valore di ogni cosa è la moneta.  Pure la giustizia viene discussa e soppesata tramite questi valori, rendendo sterile e priva di anima qualsiasi discussione su questi temi. Ma io non posso tapparmi gli occhi davanti a queste cose. Che schifo! Qualcosa escogiterò sicuramente... si... non resterò fermo e impassibile come uno spettatore inerme...
 
Questi e altri mille pensieri iniziarono ad affollare la mia mente, tumultuosi
come un torrente in piena. Io vedevo tutto questo come una sfida e una
minaccia alla nostra integrità di esseri umani, su cui si addensava
l’ombra buia del nichilismo, che si manifestava soprattutto come sfrontata
sicurezza di sé e nascondeva fredda indifferenza.
Decisi allora che era ora di smettere di piangere, era meglio uscire per
provare a spezzare le catene della mia sofferenza.
 Camminai come un automa, senza nemmeno quasi vedere dove andavo. Dopo aver camminatò un bel po’, mi soffermai nel bel mezzo del parco ad osservare l’incessante scorrere dell’acqua che percorreva il ruscello artificiale sino al laghetto finale. Questo mi fece pensare all’incessante scorrere dell’universo e della stessa vita. La mia vita, nonostante tutto il dolore che la soffocava, continuava a scorrere, giorno dopo giorno, attimo dopo attimo. Così come scorrevano le vite degli altri.

Ma non potevo continuare così. L’alcol non avrebbe risolto il mio problema. Dovevo reagire, se non per me, almeno per lui, per mio figlio. Non era certo questo il migliore dei modo per onorarlo, per rendergli giustizia.

 Giustizia? Esiste una vera giustizia? Una giustizia terrena che possa placare il mio dolore? Certo non credo in una giustizia divina. Se esistesse veramente un dio, non esisterebbero certi orrori.” - pensai e  contemporaneamente avvertii un forte dolore stringermi il petto.

Dovevo fare giustizia: i colpevoli non dovevano restare impuniti. E dovevo farlo perché non è giusto che si calpesti il dolore e la dignità delle persone che soffrono. Non è giusto che si cancelli con un colpo di spugna i loro ricordi. Non è giusto che loro non conoscano la sofferenza, il dolore, le ore interminabili passate a fissare il nulla.

Ma esiste la “vera giustizia”? Quella imparziale, quella corretta?

Capita sovente di sentire dalle vittime di reati o, nei casi più gravi, dai loro familiari l’ormai famosa frase “voglio che sia fatta giustizia”. Una sete di giustizia che però rischia di non essere appagata, non perché questa venga negata, ma perché si tende a darle un significato che non c’è proprio, perché si confonde un giudice con un giustiziere, ma sopratutto perché molti vedono la pena come un male da infliggere ad un soggetto per “compensare” il male che quel soggetto ha causato ad altri, come una diversa applicazione della legge del taglione (“occhio per occhio, dente per dente”). Una sete di giustizia resa ancora più intensa e stressante dai lunghi processi che, se paragonati a lunghe traversate nel deserto, giungono alla sentenza, e quindi all’oasi… per restare nel paragone, sempre troppo tardi.

Ma come far capire ad una persona che, come me, che ha perso il proprio figlio di colpo, che non vi è reato?? E per tutte i veri “colpevoli” che sono stati coinvolti e che risultano ancora personaggi msiteriosi?? Per loro tutto ancora tace… Ecco quindi che inevitabilmente il diritto naturale sembra cozzare con il diritto legale e si ha la sensazione che non sia stata fatta giustizia.

I media poi amplificano la situazione con l’accanimento mediatico che troppe volte si spinge oltre, con le dirette davanti ai palazzi di giustizia o davanti alal casa delle vittime, con intere trasmissioni dedicate ai più efferati casi di cronaca nera, che tanto sgomentano ma che a volte, non mi spiego per quale ragione, tanto attirano. E in quelle trasmissioni, emerge sempre una verità falsata, una verità che è quella che vogliono che si dica... ma non è quella vera...

Si arriva poi, finalmente, alla tanto agognata sentenza, si focalizza l’attenzione su quel giudice, monocratico o collegiale che sia, ci si aspetta la pena esemplare, e alla fine inevitabilmente si rimane delusi.

Il potere di decidere sugli altri è un qualcosa di molto ambito, lo si capisce, seppur in forma embrionale, dal successo dei semplici televoto di molti programmi televisivi dove ci vengono rivolte accattivanti frasi come “sei tu a decidere” oppure “chi vuoi eliminare”, e tutti li a televotare… per decidere la “sorte” del protagonista di turno. Ma un processo non è un reality e soprattutto un giudice non fa la legge: la applica!

Considerato il nostro ordinamento, penso che non sia possibile appagare la sete di giustizia come molti vorrebbero, ma bisogna invece “accontentarsi”, farsene una ragione, anche quando risulta terribilmente difficile. Bisogna riflettere sulla quantità della pena. Non ci è permesso nell’attuale sistema sentirsi appagati solo da pene a trenta anni di reclusione, per due ragioni: la prima perché sono rare, la seconda perché anche quando vengono inflitte, alla fine la loro durata, per una serie di motivi, tende a ridursi. Non rimarrebbe che sperare, almeno per chi ci crede, nella giustizia divina, ma anche in tal caso mi sento di chiudere con un ironico interrogativo: “Chi ci assicura che quel dio, che non credo esista, voglia davvero fare giustizia?

 
Comunque sia, prima di ricorrere ai mezzi estremi, prima di trasformarmi in “giustiziere”, devo almeno tentare. Voglio iniziare qualche procedimento che porti quei figli di buona donna davanti ad un tribunale. Voglio un vero processo che dichiari la vera verità e arrivi ad una sentenza equa.

So che non si possono avere risultati senza azione. La prima azione che posso mettere è far riaprire il caso... In fondo sinora mi sono sempre nascosto dietro il mio dolore, dietro i miei rimpianti… ma ora è venuto il momento di uscire allo scoperto… tanto non ho più nulla da perdere...

 
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Tratto dal libro
"Il mio racconto per Denis"
Edizioni Miele
Illustrazioni di Laura Montanari

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