giovedì 14 febbraio 2013

L’angoscia dell’imprevedibile - articolo



Ovunque si parla di precarietà. Il lavoro è precario, quindi il futuro è precario. E senza certezze la vita appare impossibile da vivere. Sono difatti molti i giovani spaventati dalla precarietà e dalla piena appartenenza a questa “generazione senza futuro”.
Credo che in nessun’altra epoca come nel dopoguerra in Occidente si sia posseduta tanta ricchezza, tanta stabilità, tanta certezza del futuro. Mai era esistita una vita così blindata e sicura come quella dei nostri padri, unici detentori di un lavoro fisso e della certezza che la loro vecchiaia sarebbe stata certamente più prospera della loro giovinezza.
Il futuro, prima di loro, non era certo, se non per pochi eletti. I nostri nonni hanno visto una guerra e patito la fame, quella vera. Non andavano in vacanza, non avevano la seconda casa, e un cappotto se lo potevano permettere forse ogni dieci anni. E ancora prima i loro genitori, e i loro nonni: tutte generazioni vissute in momenti politicamente di certo più instabili di oggi, e in cui mancavano molte delle garanzie sociali che oggi, pur con tutti i loro limiti e imperfezioni, tuttavia esistono (diritto alla sanità, all’istruzione, ecc.).
Non sarà allora che ci si sta concentrando sulla mancanza di un qualcosa che oggi viene visto come imprescindibile, ma che invece è stato un’eccezione nella storia dell’uomo e non la regola?
Tutti i nostri bisogni sono allora reali o indotti da una società che falsa la realtà?
Forse il panorama attuale è l’esito di una società che non può più vivere senza consumare tanto, e che probabilmente ha uno stile di vita pieno di pretese che erode più ricchezza di quanta non ne produca.
La questione è immensa e piena di sottoinsiemi che potremmo discutere per giorni. Tuttavia mi preme l’urgenza di un interrogativo forse troppo astratto per poter essere interessante. Mi domando se questo chiedere oggi a gran voce certezze per il futuro non sia uno snaturare l’essenza della vita umana. Non sia che l’ennesimo tentativo di sconfiggere l’ignoto, e la morte che ne è l’essenza.
Cosa si nasconde allora dietro la richiesta a gran voce di certezze per il futuro? Probabilmente si nasconde uno dei motivi più antichi e primordiali dell’umanità che è l’angoscia dell’imprevedibile, per difendersi dalla quale, gli uomini hanno inventato, tappa dopo tappa, quella che noi oggi chiamiamo “civiltà”, che dunque non è altro che un rimedio all’angoscia.
Perché gli uomini si sono adunati in comunità regolate da precetti e divieti, se non per sentirsi, almeno all’interno della comunità, protetti dall’imprevedibile?
Perché hanno inventato le religioni se non per un bisogno di protezione e fiducia in una Provvidenza?
E infine, perché si sono applicati all’astronomia, e poi alla filosofia, per approdare da ultimo alla scienza?
A proposito di quest’ultima Nietzsche scrive: “Quello di cercar la regola è il primo istinto di chi conosce, mentre naturalmente per il fatto che sia trovata la regola, niente ancora è conosciuto. Eppure vogliamo la regola, perché essa toglie al mondo il suo aspetto pauroso. La paura dell’incalcolabile come istinto segreto della scienza”.
L’angoscia per tutto ciò che sfugge alla previsione, alla regola, al calcolo, se non si fossero trovati rimedi, avrebbe determinato la rapida estinzione dell’esperimento umano. Perché è la morte, massimamente certa e massimamente imprevedibile, il vero sigillo della nostra precarietà.


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