Voglia di giustizia
Di Valter Giraudo
Rimasi accasciato a terra per più di venti minuti, a piangere e singhiozzare come un bambino. La rabbia era tanta, la delusione ancor di più. L'aggrottare violento della fronte e delle sopracciglia e lo scoprire e digrignare i denti, rappresentavano in modo evidente le modificazioni sintomatiche del mio viso che meglio esprimeva l'emozione della rabbia che era in me.
Sembrava che la storia si ripetesse. Prima un ubriacone che, alla guida della sua auto, mi aveva tamponato, creandomi non poche lesioni. Ero rimasto in ospedale per circa quattro mesi, ed i primi quindici giorni in terapia intensiva per coma. Ma quel tale era per ora rimasto impunito per vari cavilli legali. Ora, per motivi assurdi e imprecisi, vogliono farmi passare la morte di mio figlio per un suicidio.
“Perché? Perché tutto questo a me? Perché questo perpetrarsi della solita storia? Sembra quasi che l’idea del nichilismo, che nega l’esistenza di valori e realtà comunemente ammessi, abbia nuovamente preso piede. Non solo, la società è rivolta anche verso il culto di “Mammona”, figura biblica che rappresenta la ricchezza materiale idolatrata. Penso che sia il Mammonismo che il nichilismo siano il nuovo prodotto devastante di quest’epoca che potremmo definire come «regno senza valori» in cui l’unica unità di misura riconosciuta per determinare il valore di ogni cosa è la moneta. Pure la giustizia viene discussa e soppesata tramite questi valori, rendendo sterile e priva di anima qualsiasi discussione su questi temi. Ma io non posso tapparmi gli occhi davanti a queste cose. Che schifo! Qualcosa escogiterò sicuramente... si... non resterò fermo e impassibile come uno spettatore inerme...”
Questi e altri mille pensieri iniziarono ad affollare la mia mente, tumultuosi
come un torrente in piena. Io vedevo tutto questo come una sfida e una
minaccia alla nostra integrità di esseri umani, su cui si addensava
l’ombra buia del nichilismo, che si manifestava soprattutto come sfrontata
sicurezza di sé e nascondeva fredda indifferenza.
Decisi allora che era ora di smettere di piangere, era meglio uscire per
provare a spezzare le catene della mia sofferenza.
Ma non potevo continuare così. L’alcol non avrebbe
risolto il mio problema. Dovevo reagire, se non per me, almeno per lui, per mio
figlio. Non era certo questo il migliore dei modo per onorarlo, per rendergli
giustizia.
Dovevo fare giustizia: i colpevoli non dovevano restare
impuniti. E dovevo farlo perché non è giusto che si calpesti il dolore e la
dignità delle persone che soffrono. Non è giusto che si cancelli con un colpo
di spugna i loro ricordi. Non è giusto che loro non conoscano la sofferenza, il
dolore, le ore interminabili passate a fissare il nulla.
Ma esiste la “vera
giustizia”? Quella imparziale, quella corretta?
Capita sovente di
sentire dalle vittime di reati o, nei casi più gravi, dai loro familiari
l’ormai famosa frase “voglio che sia fatta giustizia”. Una sete di giustizia
che però rischia di non essere appagata, non perché questa venga negata, ma
perché si tende a darle un significato che non c’è proprio, perché si confonde
un giudice con un giustiziere, ma sopratutto perché molti vedono la pena come
un male da infliggere ad un soggetto per “compensare” il male che quel soggetto
ha causato ad altri, come una diversa applicazione della legge del taglione
(“occhio per occhio, dente per dente”). Una sete di giustizia resa ancora più
intensa e stressante dai lunghi processi che, se paragonati a lunghe traversate
nel deserto, giungono alla sentenza, e quindi all’oasi… per restare nel
paragone, sempre troppo tardi.
Ma come far capire ad
una persona che, come me, che ha perso il proprio figlio di colpo, che non vi è
reato?? E per tutte i veri “colpevoli” che sono stati coinvolti e che risultano
ancora personaggi msiteriosi?? Per loro tutto ancora tace… Ecco quindi che
inevitabilmente il diritto naturale sembra cozzare con il diritto legale e si
ha la sensazione che non sia stata fatta giustizia.
I media poi
amplificano la situazione con l’accanimento mediatico che troppe volte si
spinge oltre, con le dirette davanti ai palazzi di giustizia o davanti alal
casa delle vittime, con intere trasmissioni dedicate ai più efferati casi di
cronaca nera, che tanto sgomentano ma che a volte, non mi spiego per quale
ragione, tanto attirano. E in quelle trasmissioni, emerge sempre una verità
falsata, una verità che è quella che vogliono che si dica... ma non è quella
vera...
Si arriva poi,
finalmente, alla tanto agognata sentenza, si focalizza l’attenzione su quel
giudice, monocratico o collegiale che sia, ci si aspetta la pena esemplare, e
alla fine inevitabilmente si rimane delusi.
Il potere di decidere
sugli altri è un qualcosa di molto ambito, lo si capisce, seppur in forma
embrionale, dal successo dei semplici televoto di molti programmi televisivi
dove ci vengono rivolte accattivanti frasi come “sei tu a decidere” oppure “chi
vuoi eliminare”, e tutti li a televotare… per decidere la “sorte” del
protagonista di turno. Ma un processo non è un reality e soprattutto un giudice
non fa la legge: la applica!
Considerato il nostro
ordinamento, penso che non sia possibile appagare la sete di giustizia come
molti vorrebbero, ma bisogna invece “accontentarsi”, farsene una ragione, anche
quando risulta terribilmente difficile. Bisogna riflettere sulla quantità della
pena. Non ci è permesso nell’attuale sistema sentirsi appagati solo da pene a
trenta anni di reclusione, per due ragioni: la prima perché sono rare, la
seconda perché anche quando vengono inflitte, alla fine la loro durata, per una
serie di motivi, tende a ridursi. Non rimarrebbe che sperare, almeno per chi ci
crede, nella giustizia divina, ma anche in tal caso mi sento di chiudere con un
ironico interrogativo: “Chi ci assicura
che quel dio, che non credo esista, voglia davvero fare giustizia?”
Comunque sia, prima di
ricorrere ai mezzi estremi, prima di trasformarmi in “giustiziere”, devo almeno
tentare. Voglio iniziare qualche procedimento che porti quei figli di buona
donna davanti ad un tribunale. Voglio un vero processo che dichiari la vera
verità e arrivi ad una sentenza equa.
So che non si possono
avere risultati senza azione. La prima azione che posso mettere è far riaprire
il caso... In fondo sinora mi sono sempre nascosto dietro il mio dolore, dietro
i miei rimpianti… ma ora è venuto il momento di uscire allo scoperto… tanto non
ho più nulla da perdere...
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Tratto dal libro
"Il mio racconto per Denis"
Edizioni Miele
Illustrazioni di Laura Montanari
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